mercoledì 16 gennaio 2013

ORFANI DI REALTA’

2012 - uno sguardo sotto il segno dell’instabilità.




Ultimamente ho lavorato molto a un testo che riuscisse ad abbracciare le immagini, le idee, i temi e i film più interessanti di questo 2012 cinematografico. Una sorta di grande edificio di suggestioni ed emozioni o forse, per dirla alla Bauman, una sorta di ipertesto liquido. Ovviamente ho dovuto abbandonare molto presto l'idea di un unico articolo (sarebbe stato troppo lungo e dispersivo per un blog), preferendo dividere tutto il lavoro in più parti. Premetto subito che tutti i film a cui saranno dedicati i prossimi articoli o sono usciti nelle sale italiane nel 2012 oppure sono stati recuperati da festival, rassegne e altre piattaforme. E' ovvio che non ci saranno molti film datati 2012 che, per una ragione o l'altra, sono stati acquistati per essere distribuiti nel 2013.
Fatta queste premessa di carattere organizzativo possiamo andare avanti. In questo primo post troverete solo un'introduzione a quello che sarà il lavoro sui singoli film.



Alla fine del 2011 mi pareva di rintracciare una serie di film tutti protesi in un dialogo fondativo sul cinema, sul suo nuovo inizio e sulla sua fine obbligata: era come se ognuno di questi film fosse una chimera pronta a testimoniare il suo punto di non ritorno, il fatto che nulla fosse più reversibile. (Se Tarantino aveva dimostrato la reversibilità del cinema e della storia qualche anno fa con “Bastardi senza gloria”, Malick, Tarr, Sokurov e Trier sono lì a dimostrare l’irreversibilità del mondo, della storia e del cinema). Ho visto quei film parlare in un linguaggio senza parole, li ho osservati nel loro simbolico scambio di immagini-pensiero: la tela era il cinema e potevi vedere allo stesso momento, su schermi diversi, “The tree of life”, “Melancholia”, “Il cavallo di Torino”, “Faust”.
Quest’anno, quello dell’Apocalisse (ma il mondo non era già finito?), non ha avuto gli stessi dialoghi del 2011, ma ha vissuto all’ombra di una defaillance collettiva che sarebbe banale additare unicamente alla rinomata, chiacchieratissima crisi. Ormai siamo andati oltre la fine, nei territori baudrillardiani del postumano. Non c’è più nessun inizio o fine del mondo, e anche i film più catastrofici sono lì a dimostrarlo. Non possiamo più credere a ciò che vediamo, la vista non è attendibile, ma anche il corpo millanta e camuffa oscure nuove identità. Siamo sotto il segno dell’instabilità all’interno di un sistema che ci esclude. Sistema perfetto dove ogni ingranaggio è al suo posto, dove anche la/e crisi sono parte di quella perfezione.
Il mondo dell’indifferenza e della decodificazione, del numero e del digitale, diventa cyberspazio per Cronenberg e Carax ("Cosmopolis" e "Holy Motors"), test perpetuo per Garrone ("Reality"), rinascita per Bertolucci ("Io e te"), oscurità autoptica e riflessiva per Ceylan ("C'era una volta in Anatolia"), viaggio alle origini del cinema per Scorsese ("Le avventure di Hugo Cabret") e viaggio alle origini della visione per Herzog ("The cave of forgotten dreams"). E intorno ci sono tanti altri film che, nel bene e nel male, hanno contribuito a squarciare, una volta di più, i residui del corpo.

(continua...)

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