sabato 21 marzo 2015

Tra i campi lunghi di "Foxcatcher"




"Foxcatcher" è il gelido affresco di un'America profondamente segnata dalla solitudine, alla ricerca forsennata di un nucleo famigliare da ricostruire fin dalle fondamenta. E' un film di padri e di figli, di fratelli e di amanti, di delusioni cocenti e ambizioni sfrenate, che finiscono nel sangue di un'ennesima parabola americana.

Ma ciò che sorprende è come il talentuosissimo Bennet Miller riesca a manipolare la materia incandescente del suo film, agendo in totale sottrazione, con un minimalismo che abbatte qualsiasi enfasi o climax, a favore di un'atarassia che s''insinua sotto pelle, minuto dopo minuto, sguardo dopo sguardo, fino alla definitiva implosione (tutto "Foxcatcher" si risolve infatti nella solitudine di corpi che continuano a colpirsi per ritrovare, disperatamente, un contatto umano, per risvegliarsi dalla propria anaffettività).

Miller lavora su un'inquietudine capace di perturbare gradualmente la pelle del film, immergendola infine nel biancore ormai corrotto della non più candida neve. All'interno dei campi lunghi concepisce un cinema fatto di distanze abissali, rendendo ogni ambiente la deriva triste e struggente di un isolamento forzato, di un mondo interiore che sta andando in frantumi. E' il segreto stesso della parabola, la sua inevitabile, violentissima imperturbabilità.



Non gliene frega niente a Miller della lotta in sé, se non come occasione privilegiata per indagare i corpi, restituendo un cinema eminentemente fisico, che ama toccare, sfiorare, percuotere la pelle altrui, per ritrovare nient'altro che l'amore. Non a caso, le sequenze di lotta sembrano bellissime scene di sesso al maschile, dove ogni mossa è incontro/scontro di corpi, contatto dolente ed erotico, coreografia di muscoli e ossa.

E se Channing Tatum è, una volta di più, un corpo attoriale perfetto, Steve Carell è il grande, ricco Padre americano, figura inquietante e carismatica fin dalla sua prima apparizione. Ma nel dolore estenuante che avvolge ogni frame del film, è Mark Ruffalo a dare vita al più toccante e commovente dei personaggi. Perché è anche l'unico ad aver famiglia, il solo che sa sorridere del mondo e amare genuinamente il prossimo, ma che finisce, ironicamente, morto per invidia. Invidia di un calore che non è di casa nella famiglia Dumont, ma che il "povero" John sogna negli occhi (e nel corpo) dell'altro.

Rimane infine la traccia indelebile dello sguardo austero e deluso della terribile signora Dumont. L'occhio vitreo che fa fermare il cuore.
Bellissimo.



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