venerdì 1 febbraio 2013
ORFANI DI REALTA' #8
"Io e te"
Dimmi ragazzo solo dove vai,
Perché tanto dolore?
Hai perduto senza dubbio un grande amore
Ma di amori è tutta piena la città
(David Bowie-Mogol, "Ragazzo solo, ragazza sola")
“ Normale vuol dire normale, cioè niente”.
Così risponde allo psicanalista Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori, splendida rivelazione), sguardo serio ed acuto, occhi enormi di chi ha già visto e sofferto il mondo sebbene abbia solo quattordici anni. Sento subito di conoscerlo, di sentirlo e comprenderlo per quel suo modo di guardare clandestino, per i piccoli gesti e i movimenti in nuove, inaspettate direzioni; per come si avvolge lentamente sotto la tenda di casa, filtrando non solo i suoi occhi ma tutto se stesso, isolandosi dalla voce materna; per come spia dalla finestra il giorno e la notte, i condomini e il portiere, la luce e l'oscurità. Ragazzo solo e armadillo in gabbia, attratto da rettili e insetti, rifugge gli amici, il campo scuola e i rapporti con la madre: anima imperfetta che cerca la libertà solo nella reclusione felice, ovvero nella piccola e polverosa cantina del suo palazzo. Immerso in uno spazio angusto tra mobili, scartoffie e divano, avrà modo di sviluppare nuovi occhi consumando libri, fumetti, lattine di Coca-Cola, merendine e scatolette di tonno. Il suo rapporto col mondo diviene una mediazione filtrata da una finestra dalla quale emanano odori, suoni e una tenue ma vivida luce. Storia, quindi, dell'educazione di un nuovo sguardo (quello della crescita, nel caso di Lorenzo, quello della nuova vita, nel caso di Bernardo Bertolucci)
Si ritorna sempre alla soglia del tema principale che mi pare di aver rintracciato in tutto quest'ipertesto chiamato "Orfani di realtà": quella strana, potente forza centripeta che opera come la cornice di un quadro, incanalando i personaggi verso la polvere dell'interno. Ma stavolta non vi è alcuna reclusione forzata, Lorenzo non è costretto in uno spazio asfittico ed opprimente perché in questi pochi metri c’è tutto l’ossigeno che serve (il mondo intero si trova già lì, “aperto” tra quattro mura, nella distanza che intercorre tra un Tex Willer e delle cuffie auricolari): lontani dai regimi claustrofobici respiriamo un vitale, rigenerante soffio di tenera claustrofilia.
Se, progressivamente, in tutti i film che avevo segnalato si potevanno riscontrare una perdita di umanità e un’opacità sempre più diffusa che umiliavano gli occhi e la comunicazione, in “Io e te” siamo lontani dai sapori postmoderni della bulimia e dell’essiccazione: Bertolucci torna a fare cinema come se non ci fossero stati questi ultimi quaranta, cinquant’anni, come se solo ieri François Truffaut avesse girato “I 400 colpi”.
Per una volta che questo dreamer di ultimi tanghi e imperatori abbia filmato rivoluzioni e perversioni, enormi spazi aperti ed epopee novecentesche non ha importanza: qui si ritorna al gusto della piccola narrazione, alla volontà di raccontare una storia semplice ed autentica. Fare un film piccolo, è questo che commuove e sbalordisce: la confezione da opera prima, la freschezza, il vigore, la voglia di raccontare e di misurarsi con la “realtà” (qualunque essa sia, senza moralismi o dietrologie) e soprattutto il suo essere teneramente ma lucidamente imberbe. Trovo tutto questo sorprendente: il modo in cui Bertolucci segue il suo Lorenzo emana la stessa fresca, felice tristezza che abitava quel cinema francese leggero, etereo ed arioso, alimentato dal desiderio di scoprire il mondo con una macchina da presa.
Quando nel finale Lorenzo ci guarda, diventando il contro-campo ideale di Antoine Doinel, pare cristallizzarsi con lui nell'unità fotogrammatica del fermo-immagine (la maturità di Lorenzo si incrocia con quella di Doinel nella stessa sospensione finale, nel medesimo modo di bloccare la storia per renderla immor(t)ale). Il freeze frame diviene regno enigmatico di statici incontri.
Ma qui ancora manca il termine di paragone, l’altra solitudine che entrerà prepotentemente dalla porta della cantina: Olivia (Tea Falco, ennesimo corpo sensuale, provocante ma disfatto che entra, a pieno diritto, nella galleria femminile del cinema di Bertolucci), sorellastra di Lorenzo, intimità dolente e ferita, vittima dell’ennesima crisi di astinenza da eroina. Fa il suo ingresso nel rifugio come una Venera nera che invade la penombra, per poi mostrare tutta la sua esuberante, turbolenta sensualità. Dopo i primi, ovvi problemi di convivenza, impareranno a conoscersi come rifugiati curiosi alle porte del mondo. Lorenzo guarda, osserva, o meglio spia di nascosto da quella zona d'ombra che gli permette di osservare la realtà con gli occhi di un entomologo: ha bisogno di ingrandire le cose per vederle veramente. Quando la lente d'ingrandimento sarà puntata sul corpo di Olivia, Lorenzo si ritroverà dinanzi a un mistero molto più bello e complesso, a una sensazione mai provata che sembra agitarsi indistinta (e indomata) sotto pelle. Esiste ancora qualcosa che non potrà studiare nè classificare perché umano, troppo umano. Dopo aver cercato l'occhio della distanza, che gli avrebbe permesso di scoprire ed ammirare ciò che trovava dinanzi, si renderà conto che gli occhi non bastano: depositata la lente d'ingrandimento, avvicina il suo letto a quello della sorellastra, la tocca, la accarezza, le sorride: prima ipotesi di riconoscimento per un disperso, ma soprattutto inizio di un scambio, che di questi tempi, si era detto impossibile
Olivia, invece, sembra dissolversi, svanire e confondersi con gli oggetti, con i muri che fotografa. A un certo punto del film dice significativamente "Se io e te non avessimo punti di vista saremmo liberi di osservare la realtà come realmente è, senza farci influenzare": è il punto di vista a renderci tutti diversi. Non si può non pensare subito a Bertolucci che, dopo anni di latitanza dal cinema perché costretto su una sedia a rotella, ritorna a fare un film ma da tutt'altra prospettiva: la cosa affascinante è che non si adatta al pubblico e a gli attori, non "finge" di stare in piedi per osservare i suoi personaggi, ma anzi chede a tutti di adeguarsi al suo nuovo punto di vista (per voi volare solo nel finale). La paralisi, la malattia non diventa un limite ma, semplicemente, un nuovo modo per guardare la realtà.
All'inizio mi ero imposto di scrivere poco su “Io e te”, proprio perché è un film piccolo, semplice e bellissimo, e questo, per una volta, sarebbe dovuto bastare. Ma dopo le prime righe mi sono perso tra ricordi e sensazioni, ho rivisto schegge di film scorrere di nuovo nella mia mente. In poche parole mi sono fatto prendere la mano, malgrado la consapevolezza che la teoria, qualsiasi teoria, non possa carpire la grandezza delle piccole cose e la parola riprodurne la forza. In conclusione è bello vedere che si può ancora cercare (e trovare) il cielo in una cantina (e, "il mondo in una goccia d'acqua" avrebbe detto Tarkovskij). Lascio le ultime righe a quel momento in cui pare concentrarsi/catalizzarsi tutta l'emozione del film: mentre ascoltiamo "Ragazzo solo, ragazza sola" di David Bowie (versione italiana, su testi di Mogol, di "Space Oddity" che sarà inserita nel finale) Olivia stringe tra le sue braccia Lorenzo, cantando le parole della canzone. L'uso che fa Bertolucci di questo brano è semplicemente fenomenale: rivelazione di cuori che non possono essere più scalfiti, di porte aperte e sofferte, di un abbraccio che uccide la solitudine, che raccoglie e guarisce (?) in una stretta tutto il dolore.
Che bellezza, che potenza in questa nuova opera prima.
Ora ragazzo solo dove andrai
La notte e' un grande mare
Se ti serve la mia mano per nuotare
Grazie ma stasera io vorrei morire
Perché sai negli occhi miei
C'è un angelo, un angelo
Che ormai non vola più che ormai non vola più
Che ormai non vola più
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