mercoledì 1 febbraio 2012
Quando Faccia di Cuoio odora di paura: intorno a "Non aprite quella porta"
Anche a distanza di quasi quarant'anni il primo (e irraggiungibile) "Non aprite quella porta" rimane uno dei film più disturbanti, sporchi e malsani della storia del cinema, prototipo per eccellenza del nuovo cinema horror anni '70/80. La meravigliosa regia di Tobe Hooper è pura intuizione: la lezione - oggi dimenticata dalle deviazioni dello slasher verso il gore più gratuito - è non mostrare la violenza ma suggerirla per ottenere il più raggelante e delirante dei risultati. E Faccia di Cuoio, nella sua folle brama di uccidere, riesce anche a danzare con una motosega in uno dei finali più memorabili non solo del genere. E tutto questo ha un qualcosa di maledettamente romantico. Lo rivedevo proprio ieri sera e l'impressione deviata di trovarsi di fronte alla danza poetica di un reietto (o di una rockstar) mi ha assillato e turbato ancor di più di tutto il film. Che pure è allucinazione allo stato brado: iniziamo dal punto di vista sonoro - non dimentichiamo che Tobe Hooper ha fatto da spartiacque anche per quanto riguarda l'universo della colonna sonora. Nel suo muto addio alla melodia c'è il passaggio più grande dell'horror, una nobilitazione della paura come stato larvale della creazione. E la paura apre lo spazio a un universo sonoro deformato e assillante.
E tutto questo è terrificante. Dall'inizio stesso, dalla lucida e spietata consapevolezza che la realtà superi la fantasia nasce un primo postulato teorico (che poi avrebbe fatto scuola, vedi "The Blair Witch Project", o vedi i vari "Paranormal Activity"): ciò che è finzione rimane nella finzione, laddove la sospensione dell'incredulità avrà il tempo della durata della pellicola; ciò che è realtà ha un tempo di percezione (e spavento) altro, che si materializza come spettro notturno e, eventualmente, diurno. Hooper deve aver capito molto bene che millantare il suo incubo come storia vera avrebbe reso il suo film programmaticamente più inquietante e scandaloso, specie se voleva andare a colpire quella certa morale comune - quel puritanesimo post-Vietnam di cui il film è splendida metafora. Ma millantare e filmare hanno un origine comune, come la storia del cinema insegna.
E poi quei cadaveri, quei corpi, quei neri. Il nero tra un'immagine e l'altra. "Non aprite quella porta" è un film sulla paura, quella più primordiale e condivisa, quella atavica e infantile, la paura del buio. Mai come qui il cinema horror si è confrontato col buio: Hooper apre una spirale di oscurità (fotografica e morale) pronta a risucchiare tutto il film fino alla scena finale (che è, appunto, paradossalmente liberatoria). Sottotoni incredibili accompagnano scene meravigliose, tra cui degli inseguimenti nel buio, tra piante e cespugli. Correre per sopravvivere oltre ogni resistenza del corpo, come delle bestie che fuggono dai loro predatori.
Animalesco come pochi "Non aprite quella porta" è una delle declinazioni cinematografiche più riuscite sulla paura dell'uomo nero, sulle creature della notte che possono prendere vita anche di giorno.
E infine c'è un'idea, un'idea tipicamente cinematografica: restituire il senso più terrificante della violenza senza far vedere mai, di fatto, la violenza. Il montaggio come lente deformante di una realtà finta e inesistente. Di una realtà che non fa paura. E' la base del thriller sofisticato che vede - e torniamo sempre a lui - in Alfred Hitchcock il suo teorico più estremo. Ci risiamo: il coltello non tocca mai il corpo di Marion/Janet Leigh sotto la doccia in "Psycho". 22 Secondi e 35 inquadrature. La lama non affonda mai il corpo eppure è la scena più violenta e realistica che si possa "sentire". E' Cinema.
E il cinema è tatto forse quanto è visione. Anzi di più. Il tatto non mente, la vista si. Ciò che si può toccare è reale, ciò che si può vedere è solo possibile, non certo. E' come se ci fosse sempre un margine di errore, un potenziale trucco. Ma se il tatto viene stimolato può illudere la vista.
Basta sentire la violenza per vederla, anche quando questa non c'è. Qualsiasi spettatore avrà la sensazione di vedere in "Psycho" una raffica di coltellate, così come ricorderà tantissimo sangue (in effetti Hitchcock, introducendo di persona il film, premetteva che si sarebbe visto moltissimo sangue), quando di sangue non c'è traccia.
Tobe Hooper incanala la lezione teorica di Hitchcock e si prepara a un cinema tattile prima che visivo, dove il marciume si può sentire con le dita fin dalle prime, sconvolgenti sequenze. L'intuizione geniale è sempre invisibile ed è tutta di regia. E non escludiamo l'olfatto.
Ci sono delle volte in cui, vedendo dei film, giurerei di aver sentito un odore. Ma è cosa assai rara. Capita con chi lavora col corpo e con gli oggetti, può capitare con Svankmajer e con Cronenberg, con Tsukamoto e forse anche con il petrolio Andersoniano. Ma qui? Che odore nauseante!
Non mi leverò mai dalla testa l'odore della scena della cena. Ha un odore di morte incredibile: si ha l'impressione di poter odorare la decomposizione del corpo del nonno, la puzza orrida della carne putrefatta. E la paura. Che odore ha la paura? Quelle urla improvvise, una dopo l'altra. Quelle vocette stridule, quei suoni di terrori ancestrali che provengono da chissà quali luoghi.
E la visione.
L'occhio della protagonista durante la stessa scena. La pupilla come luogo di proiezione di tutte le paure e degli incubi umani. Occhi spalancati eppure chiusi come in sogno. Siamo già eyes wide shut.
Per chi fosse interessato ho trovato su youtube il film intero (a dire il vero con qualche censura). La qualità non è ottima.
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