lunedì 12 dicembre 2016

Arriva John Doe!




Genesi e caduta del grande sogno collettivo in quello che, ancora oggi, mi pare il film più complesso, più oscuro, più inquietante di Frank Capra. A rivederlo, "Arriva John Doe" si rivela, una volta di più, un film di un'attualità sconcertante. E' un'opera alimentata da continui slittamenti, un quarto potere che non ha paura di farsi spudorata parabola cristica, demistificante sogno americano, inscenando una vera e propria politologia dalle tinte foschissime (i potenti di turno che, nel finale, sembrano orride emanazioni pinguinesche). Il John Doe di Gary Cooper non è in fondo così distante dal suo Mr.Deeds di E' arrivata la felicità. Al cinema, almeno al cinema, bisogna credere nell'utopia, e questo Capra l'avevo capito meglio di tutti. Trovo quindi straordinario che il finale scelto per il film (si parla di quattro finali alternativi) rappresenti in definitiva la rottura di un circolo, la vittoria del singolo uomo su un intero sistema: se l'amore non potrà salvare il mondo potrà almeno salvare John Doe, che significa ognuno di noi.

venerdì 2 dicembre 2016

I Cormorani di Fabio Bobbio




L'ho sentito molto "I Cormorani" di Fabio. Perché è un film che richiama alla mente un mondo altro, dove i genitori non esistono, dove il pedinamento di due ragazzini tra boschi, supermercati e luna park si fa ipnotico e dolce, ondivago e sussurrato. C'è una verità profonda nel rapporto tra Matteo e Samuele, i due giovanissimi protagonisti, fatta di giochi, sguardi, piccole sfide e complicità infantili. Sembra quasi che il tempo si fermi, inghiottito nella bolla di un'estate infinita, quella dell'ultima infanzia: Fabio Bobbio lascia liberi i suoi bimbi sperduti, liberi di esplorare un set che non è mai tale ma che riflette, in fondo, la loro vita quotidiana. Il suo sguardo è colmo d'affetto e delicatezza, memore di tante suggestioni cinefile (Comodin, Gus Van Sant, il Lisandro Alonso de "La Libertad") che però non inghiottono mai il film, lasciandolo vivo, palpitante, continuamente in fieri. Questo è il cinema italiano che continuo a sognare. Bellissimo.

giovedì 1 dicembre 2016

Su Elle di Paul Verhoeven




C'è un mondo di pulsioni libidinali e fantasie proibite nello sguardo algido, robotico e crudele di Isabelle Huppert in "Elle", nuova conturbante opera di Paul Verhoeven. Con una furia che non risparmia nessuno, il regista olandese mina le fondamenta stesse della società borghese contemporanea: nel mirino c'è il nucleo di una famiglia che non potrebbe essere più disfunzionale, c'è lo spettacolo quotidiano dei media e il pasto mediatico della Chiesa, le perversioni della gente comune e del "buon" vicino, le nuove vite di gilf grottesche con toy-boy da strapazzo, le chiacchiere vane, sempre uguali, sempre vuote, sulla letteratura e sull'arte. La Lei del titolo è un'entità tutta cinematografica che, come una mina, fa detonare l'intero mondo - e l'intera, fasulla morale - che la circonda. Assassina di un padre e di una madre, di un amante e di un intero corollario di valori. Verhoeven firma uno dei film più politici della sua carriera, mettendo al centro un mondo - il nostro mondo - dove è il sesso a regolare rapporti di potere, gerarchie e successi. Ogni dinamica carnefice-vittima viene ribaltata, Verhoeven mischia le carte, lontano anni luce da una prevedibile storia di vendetta. Il film, proprio come uno dei videogiochi della protagonista, vive nel continuo ribaltamento di ruoli, generi, superfici. Al cinema ogni reincarnazione è possibile, ogni mondo sotterraneo ha il potere famelico di inghiottire l'intera realtà. Con lo spettro della morte sempre in agguato, la vita continua, trasformando il trauma di un passato lontano nell'innesto stesso di una furia distruttrice, di una bambina dall'infanzia rubata, nuovo angelo sterminatore, nuova, inumana configurazione di un (s)oggetto del desiderio che sembra uscire dalle pagine di Bataille.

Katherine transgender




Mi piace "Il diavolo è femmina" per come sia il film di Cukor che più deraglia, apre parentesi, esce fuori dal tracciato in maniere imprevedibili. Dalla commedia transgender, in anticipo sui tempi, al dramma familiare, dal melò all'avventura comica. Katherine Hepburn, travestita da uomo, emana un fascino quasi inammissibile per l'epoca. E' lei, costantemente sopra le righe, a cospargere d'ingenuità un film popolato da porci (parafrasando una battuta di Cary Grant). E le sequenze teatrali, con gli spiragli musical, sono istanti che bloccano il tempo della narrazione nutrendosi di nient'altro che il cinema.

Sulla fede, su Monte, su Naderi e su Tarkovskij




Ogni atto di fede è gesto gratuito e ossessivo, ogni santo è un folle. Abbattere una montagna per spezzare una maledizione, fare sesso con una strega per impedire la fine del mondo. Agostino in Monte rimane a combattere assieme alla sua famiglia (che non lo abbandona), mentre tutti gli altri se ne vanno. Egli è l'incarnazione del guerriero santo, del profeta che non oppone alcuna resistenza al compiersi - strutturalmente irrazionale - del miracolo ( è una figura quasi abramitica). Solo la fede cieca e incrollabile può donare lui la salvezza. Il Monte stesso sembra suggerirgli ciò che deve fare, fino chiamarlo a sé, alla sua necessaria morte/rinascita. Alexander in Sacrificio arriva perfino a bruciare la propria casa per portare a compimento la profezia. Sia Alexander che Agostino credono prima di vedere, sentono prima di pensare, agiscono - fuori dal mondo - per il mondo. Ecco perché Monte è un film profondamente, sensibilmente religioso, come lo sono tutti i film atletici, sportivi e maratoneschi. E' già lì, mentre prova sulla propria pelle le origini gratuite e irriducibili della fede.