lunedì 28 settembre 2015

"Sicario" - a catastrofe già avvenuta




A catastrofe già avvenuta, non rimangono che scarti, singoli residui di umanità gettati nel biancore accecante di chi non può più distinguere tra bene e male, tra giustizia e vendetta: il mondo è frontiera, confusione di parti dove i confini sono stati superati. Un universo infernale dominato dalla violenza e dall'ossessione: qui la guerra si fa condizione permanente, base esistenziale. Difficile stabilire il momento in cui questa guerra sia entrata nelle nostre vite.
Ci si ritrova a vagare in piena confusione, senza più contrasti netti, senza più ordini o discipline morali da seguire. Un mondo senza più regole è un mondo dove tutto è permesso, un universo senza Dio (e senza Diavolo) consegnato agli istinti più bassi degli uomini. Eppure la protagonista, la splendida Emily Blunt, è la flebile luce nel buio, il ricordo mai appassito di chi, imperterrito, crede in un ordine possibile (in un'umanità che ancora vive e pulsa sotto le croste marce del reale). E' lei il contraltare perfetto della Maya di "Zero Dark Thirty", l'incarnazione femminile di una tenacia, di un morbo, di una fede che consuma fisicamente e psicologicamente. E, come Maya, il suo personaggio si rivelerà completamente impotente, quasi come se si ritrovasse "gettato" in un (dis)ordine dominato dal caos. Alla fine, tra lacrime e morti, non rimane che un universo di solitudine.
La Frontiera tra Stati Uniti e Messico assume l'aspetto di un nuovo west, la terra di nessuno dove poter regredire: qui il sicario è il lupo di un mondo di cui s'illude di decidere le sorti. Lui è l'uomo invisibile, il giustiziere privo di etichette, il fantasma che vive nell'ombra, lo spettro che torna sempre a chiedere il conto. Eppure soffre, perché è stato è un uomo (perché è ancora un uomo).
Dopo "Prisoners", Villeneuve continua a indagare le nostre pulsioni più animalesche e sotterranee, rigettando qualsiasi facile manicheismo e trattando i personaggi proprio come le sue frontiere: mondi liminali dove ogni cosa cambia il suo aspetto e rivela, sempre, una verità eccedente, inaccettabile, catastrofica. Tra i film più apocalittici dell'anno, proprio perché intercetta la fine del mondo non davanti a noi, ma alle nostre spalle. Tutto è già avvenuto, eppure nessuno se n'è accorto.

mercoledì 23 settembre 2015

Inside Out: la Pixar e l'oblio (2)




(1) Si rifiutano gli schematismi di ogni sociologia spicciola a favore di una (con)fusione essenziale: ogni uomo è un ossimoro, ogni individuo non può superare le correnti che lo percorrono, ma solo unirle senza alcuna possibilità di sintesi. In questo senso è Tristezza il polo attrattivo, l'origine, l'essenza di Gioia stessa. Non il suo opposto, ma la sua vera identità.

(2) La mente umana in "Inside Out" è una rete virtuale, un universo liquido, un complesso labirinto di pensieri sferici sempre a rischio di cadere. Ogni essere umano ha una sua geografia interna, un sistema ordinato e complessissimo controllato da Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto. Mentre scorrono treni-pensiero e crollano isole identitarie, "Inside Out" mostra tutta la sua grandezza: quella di scrivere una storia di formazione dall'interno della sua protagonista, con la notevole intuizione di riflettere sull'assenza, sulla perdita, sul potere rammemorante della mente (quasi ci trovassimo in un eternal sunshine animato, dove la vita scorre su uno schermo, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno e così via).

(3) Da ritornarci: la produzione-sogni che fa dell'attività onirica, giustamente, una produzione cinematografica (una parodia collaudatissima del sistema hollywoodiano) e il regno del pensiero astratto che diviene immagine bidimensionale, follia surrealista in movimento. C'è perfino Max Ernst in "Inside Out"!

Inside Out: la Pixar e l'oblio




La cosa più commovente di "Inside Out", capolavoro definitivo della Pixar, è come prenda consapevolezza dell'oblio che ci abita, e faccia di quest'oblio la condizione necessaria, basica per lo sviluppo e la crescita di ognuno di noi. Mi pare, questo, un film sul divenir nulla del pensiero, sui ricordi che, proprio come naufraghi, vanificano, dissolvono, spengono se stessi in un radicalissimo nulla.
La discarica dei ricordi dove tutto svanisce, cessando semplicemente di essere e di esistere, è la più straordinaria, la più straziante rappresentazione della perdita di sé che abbia mai visto in un film d'animazione (e ho pianto, chissà quanto ho pianto, alla vista dell'amico immaginario che si fa aria...).

Reagire a Cosmos




18 Settembre 2015 (subito dopo la visione).
Dopo tanta attesa ho finalmente visto "Cosmos" del mio amato Zulawski. Ebbene, come raramente mi capita dopo una visione, mi sento completamente impossibilitato ad esprimere un parere, un opinione, un discorso intorno al film. Sospendo il giudizio, perché ho trovato "Cosmos" un'opera tanto affascinante quanto respingente, tanto abissale quanto, forse, chiusa. Voglio tornarci, devo tornarci.
Avrei bisogno di una seconda, terza, quarta visione, vorrei leggere il libro di Witold Gombrowicz per comprendere che tipo di operazione ha fatto Zulawski. Per ora rimangono delle immagini, alcune fortissime, altre "troppo" (non so che significhi questo troppo, ma è l'unica parola che mi tornava durante il film).
Rimane l'attrazione per il movimento estenuante dei personaggi, che mi rimanda a tutto il Zukawski pre-fidelitè, eppure, allo stesso tempo, mi dà la sensazione di un film che non assomiglia a nient'altro della sua produzione.
Mi prendo tempo, semplicemente, per capire se è un film da amare incondizionatamente oppure no (rimangono le suggestioni del doppio, l'idea che tutto il film veicoli il due: dai finali che offrono una doppia possibilità del reale ai titoli di coda che denudano il film, svelano l'altro reale, quello del cinema). Che sia dunque un'opera che supera i limiti del linguaggio, che accumula citazioni con l'ostentata volontà di scivolare verso un impasse? Che il film stesso sia quell'impasse con cui riesplorare tutto il proprio cinema, con cui ritrovare una doppia Adjani, altri occhi verdi, altre possessioni?
Penso. Anche io cado nell'impasse.



21 Settembre 2015
Probabilmente una delle cose che mi ha fatto innamorare, diversi anni fa, del cinema di Zulawski è la sua stessa visceralità. I corpi, gli spasmi, i tic, le tensioni nervose, l'intera coreografia di movimenti epilettici restituivano un senso di attrazione e repulsione, di morbosità, di amore profondo per la carne. Un cinema in continua detonazione pronto ad avvolgere tutti i sensi, a solleticare, innervosire, eccitare lo sguardo come pochi hanno saputo fare. Un cinema messianico, eccedente, apocalittico e fieramente, saldamente disgustoso. "Cosmos", il suo ultimo film dopo una pausa di quindici anni, è un oggetto filmico che mi ha attratto, respinto, lasciandomi interdetto e impossibilato a scriverne. Eppure oggi mi rendo conto di una cosa: c'è uno slittamento, un passaggio dal cuore nervoso dei suoi film precedente al cervello che muove le immagini. E' un'opera dove tutto il disgusto, tutto il plus vitalissimo delle immagini, viene rinchiuso all'interno di un progetto calcolato minuziosamente, di un gioco cerebrale prima che fisico, concettuale ancora prima che motorio. L'anormalità del corpo zulawskiano diviene qui standard, maniera, deriva, e il rischio di essere monocordi, intrappolati in un film-pensiero, è evidente inquadratura dopo inquadratura. Quella che mi è mancata insomma in "Cosmos" è la vera libertà di Zulawski, il suo stesso gesto cinematografico che è quello della vita prima ancora della morte, dell'azione prima ancora del pensiero. Continuerò a rifletterci e a tornarci, perché "Cosmos" ritorna sempre nei miei pensieri. Ma più rifletto più comprendo che lo Zulawski che ho tanto amato è un altro.

Whiplash di Damien Chazelle




Recuperato dopo mesi "Whiplash" di Damien Chazelle: ennesimo filmettino furbissimo, ruffiano come pochi nella sua adesione incontrovertibile ai modelli più cari all'Academy. Opera quasi paradossale per come parla di un'amore viscerale per la musica senza poi, minimamente, essere in grado di restituirne fascinazione o magia. Non c'è passione, non c'è istinto, non c'è potenza, non c'è un briciolo di verità: perfino nella messa in scena delle esecuzioni musicali, la regia procede per accumulo, alternando inquadrature velocissime che vorrebbero seguire il tempo della musica e finiscono invece per deformarlo, allontanarlo, dimenticarlo (lo stacco a tempo, deformazione fastidiosissima che elimina il "tempo" dell'immagine, la sua durata, a favore di una tirannia tutta musicale). Anche i personaggi sono macchiette prive d'identità, con lo stupendo JK Simmons intrappolato in un ruolo che non concede nulla, non libera nulla e, soprattutto, non lascia nulla. Senza soffermarci sul punto di vista ideologico (in una morale così accondiscendente, così prevedibile da far paura) "Whiplash" è un'operetta servile e stanchissima, che vorrebbe esplodere ma finisce solo per annoiare.

Poetiche del colonialismo: Beast of No Nation




"Beast of No Nation" di Cary Fukunaga, la più cocente delusione del festival di Venezia 2015. Progetto difficile e ambiziosissimo sui bimbi-soldato africani. Mescola altisonanti derive malickianead allucinazioni coppoliane, senza mai riuscire a gestire il materiale filmico. Dalla prima all'ultima inquadratura Fukunaga osserva edulcoratamente la realtà che racconta, la osserva dal di fuori, come un testimone comodo che scava nella violenza per cercare nient'altro che l'effetto. Ciò che manca, ed è paradossale, è il vero dolore.La rappresentazione stessa della violenza appare completamente studiata a tavolino: come strumentalizzare l'alterità attraverso pesanti voice over, musiche onnipresenti, ondate di retorica moralmente inaccettabili per un film del genere. Anche nei suoi passaggi più gravi non c'è un'istante di verità, rimane solo il riflesso pallido di una tragedia che non si ha mai davvero il coraggio di affrontare. Ciò che si vede, in continuazione, è solo il set e la costruzione filmica. Moralmente inaccettabile per come, ancora una volta, il cinema americano più becero propone una scorrettisima poetica del colonialismo.

Black Mass di Scott Cooper




Gangster-movie derivativo, che guarda continuamente a Scorsese senza sapere restituire anima, corpo e sguardo ai suoi personaggi. Il film funziona per tutta la sua durata, ma l'abbiamo già visto, già subito tante di quelle volte da essere ormai arrivati a saturazione. Eppure il problema vero non è solo la mancanza di autonomia dal punto di vista cinematografico, ma anche la volontà pedissequa di non prendere una strada propria, di dover aderire, a tutti i costi, alla storia vera. E' proprio questa precisione filologica a indebolire la costruzione cinematografica. Il dover raccontare tutto, finendo poi per lasciar da parte l'umanità, il mistero, la fragilità dei suoi stessi personaggi. Con l'eccezione dell'agente dell'FBI, personaggio meraviglioso e davvero centrato, i personaggi di Cooper sono figurine che solcano modelli ormai stanchi. Lo stesso Johnny Depp nel suo glaciale trasformismo, è una maschera priva di qualsiasi credibilità. E il film, che pur sa come tenere uno spettatore incollato allo schermo, svanisce nella nebbia del già-visto.

Il Guadagnino che non ti aspetti




Nonostante non ami molto il cinema di Luca Guadagnino,questa volta mi sono dovuto ricredere. "A Bigger Splash" è un film che trasuda un'incredibile libertà cinematografica per tutta la sua durata. Sembra quasi un'opera prima per il suo coraggio di osare e mettersi in gioco, perfino contro qualsiasi buonsenso (il finale esilarante che sembra una geniale messa alla berlina di tutto ciò che si è visto). Mi piace l'irresponsabile assenza di senso della misura, la totale capacità di infischiarsene di piacere, la tensione narrativa che s'insinua passaggio dopo passaggio (fino alla straordinaria sequenza della colluttazione). E’ un'opera conturbante e sensualissima capace di cambiare pelle in continuazione, di farsi imprevedibile, virando dove meno te l'aspetti. E’ un film che non solo non teme il ridicolo, ma lo assume nella sua stessa struttura cinematografica. Tra luoghi chiusi e spazi immensi, "A Bigger Splash" è in definitiva un’opera sulla voglia irresistibile di far cinema, di giocare col cinema, di tentare il cinema, fino a smontare se stesso. E che bello quando un autore che non ha mai sopportato riesce a sorprenderti.

Gli uomini di questa città io non li conosco




"Gli uomini di questa città io non li conosco. Vita e teatro di Franco Scaldati" di Franco Maresco. Opera a cuore aperto su un grande autore teatrale praticamente misconosciuto in cui Maresco trova il suo ennesimo alter-ego. E' uno struggente film di specchi e richiami che squarciano il grottesco per scoprire un mondo di tenerezza: cos'è il cinema di Maresco se non una continua, umanissima riflessione sul suo essere inattuale, sul suo essere un profondo, purissimo atto resistenziale? E' il cinema dei grandi perdenti, il cinema degli invisibili, il cinema di chi ricorda un altro mondo, un'altra storia, sentendo la responsabilità morale di raccontarla: è l'unico modo per legittimarsi come esseri viventi, è l'unico modo per sussistere (o almeno illudersi di farlo) tentando di salvarsi dall'oblio delle immagini. Non importa se poi si rimarrà sconfitti. Maresco commuove per la sua infinita dolcezza, per il suo sguardo amaro, potentissimo, su un presente che dimentica troppo in fretta.Questo piccolo grande film, che forma un dittico perfetto col precedente "Belluscone", scalda il cuore e lascia dentro una tristezza priva di consolazioni, priva di mediazioni, ma viva, densa, fragilissima. Ancora una volta, viva l'invisibile Maresco!

martedì 22 settembre 2015

"Afternoon" di Tsai Ming-liang




L'impressione è quella di trovarsi già lì, all'interno di quell’unica inquadratura, di quell’unico spazio, e riscoprire, in un'istante, una famiglia a cui sei sempre stato affezionato. Una lunga, bellissima chiacchierata tra Tsai Ming-liang e Lee Kang-sheng (anche se, in realtà, a parlare è quasi sempre Tsai, mentre Lee è il vero mistero, il vero grande segreto, enigma del film). Una formidabile storia d'amore rinchiusa nell'intimità di una casa abbandonata, ennesima rovina del suo cinema. Perché - lo si dice nel film - tutto il cinema di Tsai è un cinema che si muove intorno alle rovine (anzi, i suoi film stessi sono rovine, resti del tempo, scarti esistenziali) e anche loro due, Tsai e Lee, saranno un giorno residui del mondo pronti a lasciare un silenzio, un'assenza, una mancanza sullo schermo (l'immagine finale delle sedie vuote, dove la mente rimbalza immediatamente alle sedie di "Francofonia" di Sokurov - in un gioco-rimando tutto festivaliero). "Afternoon" è un film lieve che ruota intorno alla morte, dove Tsai sembra consumato da una malattia che affronta con un'incredibile leggerezza (sembra quasi il film di un uomo prossimo a morire). E verso il finale si trova un momento davvero clamoroso, in cui il regista dice di credere ancora nella bontà degli uomini. E aggiunge: "In fondo il mio cinema ha sempre parlato di questo". Grazie.